LA NOSTRA SOLIDARIETA’ AL SOMMO PONTEFICE BENEDETTO XVI SU ISLAM E VIOLENZA.

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A seguito della riunione operativa con all’ordine del giorno le reazioni suscitate dalle affermazioni di Benedetto XVI durante la lectio magistralis all’UNIVERSITA DI RATISBONA-REGENSBURG con considerazioni su Islam e violenza, vista la reazione di parte del mondo islamico che hanno provocato forti critiche in alcuni paesi musulmani non disgiunte da atti vandalici nei confronti delle comunit cattoliche, con il danneggiamento di alcune chiese e visto il silenzio generale dell’Europa e in parte, di alcuni settori dell’Italia, , il presidente Maurizio ZINI a nome del Comitato Direttivo e di tutti gli associati a LOBBYLIBERAL INTERNATIONAL, agli aderenti di AREA LIBERAL e ai partecipanti allEASY RIDER VATICAN MEETING e tutti quelli interessati nella pace e nella giustizia, esprime la massima solidariet al Papa Benedetto XVI, in questo particolare frangente e ribadisce con forza, le radici cristiane sulle quali si fonda la nostra convivenza civile e che rinunciare a spendere una parola in difesa del Santo Padre un grave segnale di debolezza da parte di tutti gli Uomini di Buona Volontà.

Il gruppo EASY RIDER VATICAN MEETING, LOBBYLIBERAL INTERNATIONAL e AREA LIBERAL esprime rispetto per Benedetto XVI per quanto ha affermato prima della preghiera all’Angelus nel Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, a proposito dell’ondata di protesta scatenata nel mondo islamico dal Suo discorso all’Universit di Ratisbona:“Sono vivamente rammaricato per le reazioni suscitate da un breve passo del mio discorso all’Universita di Ratisbona, ritenuto offensivo per la sensibilita dei credenti musulmani”. “Spero che la dichiarazione resa pubblica ieri dal cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, in cui ha spiegato l’autentico senso delle mie parole, valga a placare gli animi e a chiarire il senso del mio discorso, che nella sua totalit era ed un invito al dialogo franco e sincero, con grande rispetto reciproco”. Il passo del discorso all’Universit di Ratisbona, ritenuto offensivo dai credenti musulmani, era “una citazione di un testo medioevale, che non esprime in nessun modo il mio pensiero personale”. “Il viaggio apostolico in Baviera, che ho compiuto nei giorni scorsi, stato una forte esperienza spirituale, nella quale si sono intrecciati ricordi personali, legati a luoghi a me tanto familiari e prospettive pastorali per un efficace annuncio del Vangelo nel nostro tempo”.

RIPORTIAMO INTELGRAMENTE DAL SITO DI RADIO VATICANA.IT, IL DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI ALLUNIVERSITA DI RATISBONA-REGENSBURG IL 12 SETTEMBRE 2006.

 

Dalla cattedra dell’universit di Regensburg Benedetto XVI riflette su religione e violenza dal versante della ragione. Cristianesimo e ellenismo, cultura moderna e fede. Il dialogo fra culture e i pericoli per l’occidente.

 

Fede, ragione e università.

Ricordi e riflessioni.

 

Illustri Signori, gentili Signore!

per me un momento emozionante stare ancora una volta sulla cattedra dell’universit e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l’Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attivit di insegnante accademico alluniversit di Bonn. Era nel 1959 ancora il tempo della vecchia universit dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano n assistenti n dattilografi, ma in compenso c’era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facolt teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c’era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facolt si presentavano davanti agli studenti dell’intera universit, rendendo cos possibile una vera esperienza di universitas: il fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni, stando cos insieme anche nella comune responsabilit per il retto uso della ragione questo fatto diventava esperienza viva. L’universit, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facolt teologiche. Era chiaro che anch’esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del “tutto” dell’universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapel la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra universit c’era una stranezza: due facolt che si occupavano di una cosa che non esisteva di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo cos radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ci debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell’insieme dell’universit, era una convinzione indiscussa.

Tutto ci mi torn in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Mnster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d’inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verit di ambedue. Fu poi probabilmente l’imperatore stesso ad annotare, durante l’assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega cos perch i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto pi dettagliato che non le risposte dell’erudito persiano. Il dialogo si estende su tutto l’ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull’immagine di Dio e dell’uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le “tre Leggi”: Antico Testamento Nuovo Testamento Corano. Vorrei toccare in questa lezione solo un argomento piuttosto marginale nella struttura del dialogo che, nel contesto del tema “fede e ragione”, mi ha affascinato e che mi servir come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.

Nel settimo colloquio (διάλεξις controversia) edito dal prof. Khoury, l’imperatore tocca il tema della jihād (guerra santa). Sicuramente l’imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: “Nessuna costrizione nelle cose di fede”. una delle sure del periodo iniziale in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l’imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il “Libro” e gli “increduli”, egli, in modo sorprendentemente brusco, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: “Mostrami pure ci che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”. L’imperatore spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza cosa irragionevole. La violenza in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. “Dio non si compiace del sangue; non agire secondo ragione (σὺν λόγω) contrario alla natura di Dio. La fede frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacit di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia Per convincere un’anima ragionevole non necessario disporre n del proprio braccio, n di strumenti per colpire n di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte”.

L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza : non agire secondo ragione contrario alla natura di Dio. L’editore, Theodore Khoury, commenta: per l’imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest’affermazione evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio assolutamente trascendente. La sua volont non legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un’opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazn si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verit. Se fosse sua volont, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria.

Qui si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ci che greco nel senso migliore e ci che fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: “In principio era il λόγος”. questa proprio la stessa parola che usa l’imperatore: Dio agisce con logos. Logos significa insieme ragione e parola una ragione che creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ci ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos Dio, ci dice l’evangelista. L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sent la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr At 16,6-10) questa visione pu essere interpretata come una “condensazione” della necessit intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco.

In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Gi il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall’insieme delle divinit con molteplici nomi affermando soltanto il suo essere, , nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso. Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all’interno dell’Antico Testamento, una nuova maturit durante l’esilio, dove il Dio d’Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: “Io sono”. Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinit che sono soltanto opera delle mani dell’uomo (cfr Sal 115). Cos, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l’adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l’epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell’Antico Testamento, realizzata in Alessandria la “Settanta” , pi di una semplice (da valutare forse in modo poco positivo) traduzione del testo ebraico: infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall’intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero ellenistico fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire “con il logos” contrario alla natura di Dio.

Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista inizi con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine port all’affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di l di essa esisterebbe la libert di Dio, in virt della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ci che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz’altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazn e potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-Arbitrio, che non legato neanche alla verit e al bene. La trascendenza e la diversit di Dio vengono accentuate in modo cos esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono pi un vero specchio di Dio, le cui possibilit abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ci, la fede della Chiesa si sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui certo le dissomiglianze sono infinitamente pi grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio (cfr Lat IV). Dio non diventa pi divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino quel Dio che si mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l’amore “sorpassa” la conoscenza ed per questo capace di percepire pi del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio-logos, per cui il culto cristiano λογικὴ λατρεία un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).

Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ci che, con ragione, si pu chiamare Europa.

Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della dis-ellenizzazione del cristianesimo una richiesta che dall’inizio dell’et moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto pi da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della dis-ellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l’una dall’altra.

La dis-ellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati fondamentali della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cio ad una determinazione della fede dall’esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Cos la fede non appariva pi come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalit imprevedibile per i riformatori. Con ci egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l’accesso al tutto della realtà.

La teologia liberale del XIX e del XX secolo apport una seconda onda nel programma della dis-ellenizzazione: di essa rappresentante eminente Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attivit accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento. Non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei per tentare di mettere in luce almeno brevemente la novit che caratterizzava questa seconda onda di dis-ellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Ges e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell’umanit. Ges avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di ci in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinit di Cristo e nella trinit di Dio. In questo senso, l’esegesi storico-critica del Nuovo Testamento sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell’universit: teologia, per Harnack, qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ci che essa indaga su Ges mediante la critica , per cos dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell’insieme dell’universit. Nel sottofondo c’ l’autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle “critiche” di Kant, nel frattempo per ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per cos dire razionalit intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo , per cos dire, l’elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall’altra parte, si tratta della utilizzabilit funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilit di controllare verit o falsit mediante l’esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli pu, a seconda delle circostanze, stare pi dall’una o pi dall’altra parte. Un pensatore cos strettamente positivista come J. Monod si dichiarato convinto platonico o cartesiano.

Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificit. Ci che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E cos anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercano di avvicinarsi a questo canone della scientificit. Importante per le nostre riflessioni, comunque, ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, per, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che doveroso mettere in questione.

Torneremo ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina “scientifica”, del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di pi: l’uomo stesso che con ci subisce una riduzione. Poich allora gli interrogativi propriamente umani, cio quelli del “da dove” e del “verso dove”, gli interrogativi della religione e dell’ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla “scienza” e devono essere spostati nell’ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la “coscienza” soggettiva diventa in definitiva l’unica istanza etica. In questo modo, per, l’ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunit e scadono nell’ambito della discrezionalit personale. questa una condizione pericolosa per l’umanit: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell’ethos non la riguardano pi. Ci che rimane dei tentativi di costruire un’etica partendo dalle regole dell’evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, semplicemente insufficiente.

Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della dis-ellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dellincontro con la molteplicit delle culture si ama dire oggi che la sintesi con lellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non semplicemente sbagliata; tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dellAntico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.

Con ci giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente lopinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dellilluminismo, rigettando le convinzioni dellet moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilit che esso ha aperto alluomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. Lethos della scientificit, del resto, volont di obbedienza alla verit e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte della decisione di fondo dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa dunque lintenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e delluso di essa. Perch con tutta la gioia di fronte alle possibilit dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilit e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ci che verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cio come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell’universit e nel vasto dialogo delle scienze.

Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni un dialogo di cui abbiamo un cos urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalit della ragione un attacco alle loro convinzioni pi intime. Una ragione, che di fronte al divino sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in s, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilit metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perch di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanit, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: “Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell’irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull’essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verit dell’essere e subirebbe un grande danno”. L’occidente, da molto tempo, minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e cos pu subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. “Non agire secondo ragione (con il logos) contrario alla natura di Dio”, ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. a questo grande logos, a questa vastit della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, il grande compito dell’università.

PER IL TESTO ORIGINALE CLICCARE QUI

 

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